Il tempo della cura: arte, memoria e relazione nell’ambulatorio del medico di famiglia
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Abstract
Intervista a Romano Ravazzani, medico di famiglia a cura di Patrizia Santinon
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Sono entrata nel tuo ambulatorio in Cit Turin, in parte preparata rispetto a ciò che avrei trovato. Eppure, l’effetto di stupore è arrivato subito: l’ingresso in un contesto “onirico” appena aperta la porta della sala d’attesa, segnato dal tempo ma anche sospeso in un tempo “altro”. I numerosi riferimenti all’arte, che collezioni in tante forme, sono veicoli di suggestioni che, come mi hai raccontato, promuovono a volte una coincidenza affettiva vissuta nella relazione medico-paziente. La fruizione artistica permette di entrare in contatto con una visione viva dell’umano, che parla immediatamente alle ferite altrui. Cosa è troppo, e come lo misuri? Mi piacerebbe che raccontassi l’esperienza che specifiche tipologie di pazienti hanno del tuo spazio: i bambini, gli adulti, gli anziani, quelli che chiami “i miei pazienti”.
Il mio spazio è aperto e accoglie persone non selezionate per tipo di patologia, età, sesso, ecc., a differenza di ambulatori specifici dedicati a patologie o tipi di pazienti (dislipidemie, ipertensione, ambulatorio pediatrico, geriatrico, ginecologico…). Entrano bambini appena nati e anziani centenari; fortunatamente non sempre portano con sé ferite: a volte arrivano solo per un certificato di buona salute o per un controllo pressorio, ma ognuno ha la sua storia e le sue passioni, e un ambiente così personalizzato aiuta la condivisione. Non visito bambini piccoli, ma ho sempre qualcosa da regalare loro: mi piace vederli uscire contenti quando accompagnano la mamma. Al tempo stesso, mi piace vedere una persona avanti negli anni uscire con una nuova idea per un’attività o un interesse.
Attraversando le stanze della tua bottega-ambulatorio, passo in rassegna ciò che si può sapere sulla storia e la teoria dell’arte di curare. La psicologia come pratica mitopoietica, il teatro dei burattini, l’esercizio dell’immaginazione rappresentativa, la reverie, la pratica degli esercizi spirituali, tra ex voto e pratiche orientali, sono richiamati nell’ottica di un possibile impiego nell’opera di cura. Da Aristotele a Sartre, da Platone a Ignazio di Loyola, da Pirandello a Stanislavskij, da Galileo a Leibniz, da Freud a Musatti: oggi tutto questo si realizza con forza nell’ambulatorio di un medico di medicina generale. Cosa è per te l’arte nella vita personale e familiare? E cosa rappresenta nella tua professione?
Sono una persona curiosa, non un collezionista. Il collezionista vuole avere tutto di un argomento, mentre io ho tantissime realtà diverse che mi appassionano e mi accompagnano dall’infanzia: dalle auto a pedali, ai burattini del teatro delle marionette dove mi accompagnava mia nonna, dai fossili alle opere d’arte, dalle polene, che mi affascinavano nei film d’avventura, agli ex voto che cerco sempre quando entro in una chiesa. Amo dire che il mio studio è il mio test di Rorschach: contiene tutto ciò che mi ha segnato dall’infanzia a oggi. Mi piace molto la tua definizione di “bottega”; infatti, l’impatto visivo è quello di un negozio di un rigattiere, e questa distanza dall’ambiente che uno si aspetterebbe in un ambulatorio mi diverte.
In questo ambiente mi presento senza maschere e spero che i pazienti riescano a entrare in una comunicazione più profonda in un tempo più breve, rispetto a quanto accadrebbe in uno studio asettico e freddo.
Hai accettato di partecipare al progetto Cultura di Base, uno dei quattro progetti pilota del Cultural Wellbeing Lab promosso all’interno di Well Impact, il percorso intrapreso dalla Fondazione Compagnia di San Paolo per individuare progetti, luoghi, linguaggi e relazioni culturali di prevenzione e cura. Cosa è cambiato per te e per i tuoi pazienti nell’esperienza al Museo Egizio? Ce lo racconti a partire dalla sua progettazione? È interessante perché il tuo ambulatorio non è uno spazio neutro.
Sono stato onorato di essere coinvolto nella progettazione di “Cultura di Base”. L’inserimento di un ambulatorio in uno spazio museale si configurava come una sfida non semplice. L’idea di collocare un’attività clinica ASL in un contesto intenso come quello di un museo era entusiasmante. L’Italia ha musei dappertutto, una risorsa che non tutte le nazioni hanno la fortuna di possedere.
Tutto quello che abbiamo vissuto nell’infanzia ha un impatto emotivo molto forte. A Torino, molti di noi alle scuole elementari o medie sono stati accompagnati dagli insegnanti al Museo Egizio. Per alcuni pazienti, quella visita era rimasta l’unica esperienza, e vederli tornare in un ambiente che nel frattempo era diventato un lontano ricordo è stato fantastico. Entrare in un’“architettura intensa” emoziona immediatamente. Cercare l’ambulatorio accompagnati dai volontari era quasi un gioco, e venire visitati in un contesto così particolare evocava una simbolica equivalenza tra la cura dell’ambiente e lo sforzo di cura dell’operatore sanitario. Il gran finale della visita, con l’accesso diretto alla Sala dei Re, rendeva l’esperienza indimenticabile.
La sperimentazione, durata circa 6 mesi, da maggio a ottobre 2022, ha visto coinvolti 7 medici di famiglia suddivisi in quattro musei e una biblioteca, con un numero totale di pazienti pari a circa 10.500. Dopo lo stop forzato del Covid, riportare le persone a fruire di “architetture intense” e provare forti emozioni legate all’ambiente dove si svolge una determinata esperienza – necessariamente diverso dall’ambiente domestico – non sembrava facile, ma bisognava tentare al fine di promuovere o recuperare corretti stili di vita.
In letteratura si descrivono già gli effetti benefici delle visite a musei, mostre, cinema o teatro. Al contrario, la fruizione di questi stimoli nell’ambiente domestico non ha attualmente dimostrato effetti positivi, se non in casi particolari (malattie gravi temporanee o persistenti che impediscono gli spostamenti): questo dato non stupisce, poiché non si verifica né una riduzione della sedentarietà, né un incremento della socializzazione o una riduzione del rischio di depressione dell’umore. La fruizione virtuale dovrebbe essere quindi riservata a casi particolari.
La valutazione dello svolgimento dell’attività è stata affidata al Nodo Group tramite osservazione istituzionale (questionari, interviste…) e prossemica (osservazione diretta della natura dello spazio e del comportamento delle persone) nei luoghi di cura e cultura coinvolti: Museo dell’Automobile, Museo Egizio, Biblioteca Civica Primo Levi, Parco d’Arte Vivente, Polo del ‘900.
Gli indicatori non riguardavano il miglioramento del quadro clinico, considerando la molteplicità delle patologie trattate, ma il benessere percepito dall’utenza e dai medici curanti, e l’alleanza di lavoro fra medici e pazienti (riduzione dei conflitti e dei malintesi, migliore comunicazione, maggiore compliance).
L’osservazione prossemica ha evidenziato differenze tra i vari ambienti utilizzati: la biblioteca si è rivelata di minor impatto rispetto ai musei, mentre le aree dedicate all’attività ambulatoriale a volte si integravano nella struttura, altre volte (se raggiungibili con scale o ascensori) sembravano escluse dal contesto.
È emerso inoltre il ruolo fondamentale dei volontari all’accoglienza: era loro compito offrire informazioni adeguate e fare accompagnamento, per evitare che il paziente si sentisse spaesato, potesse usufruire degli spazi messi a disposizione e, al termine, compilare eventuali questionari. Non sono state utilizzate app per gestire l’arrivo e la canalizzazione dei pazienti, proprio per evitare che l’attenzione fosse concentrata sul cellulare, distraendo dall’ambiente in cui si trovavano.
L’osservazione istituzionale ha evidenziato, in primo luogo, un rinforzo dell’alleanza medico-paziente grazie all’utilizzo di spazi a funzione culturale primaria, con una differenza di intensità e immersività a seconda delle strutture utilizzate. In ogni caso, portare la funzione di cura fuori da un contesto spesso anonimo o troppo connotato da dettagli sanitari si è rivelata un’intuizione positiva e vincente.
Un altro aspetto emerso è stato l’alto gradimento del contatto empatico dei pazienti con i volontari, tanto da rendere difficile pensare di replicare l’esperienza senza il loro aiuto. In un momento caratterizzato da un rapporto difficile tra la popolazione e gli operatori sanitari, è invece emerso in questo contesto un minor livello di aggressività sia tra gli operatori che tra gli utenti, e una maggiore apertura alla relazione, con un atteggiamento di fiducia reciproca favorito dalla condivisione di un’esperienza piacevole.
Le osservatrici hanno avuto la sensazione di far parte di una “bella” sperimentazione, orientata a migliorare l’esperienza di cura su vari livelli. L’elemento culturale ha pervaso l’esperienza diretta e incrementato la curiosità verso gli spazi utilizzati.
Se il progetto dovesse in futuro essere strutturato sul lungo periodo, andrebbero considerati due aspetti: la possibile abitudine al luogo, inizialmente inconsueto, e qualche criticità della struttura ospitante nel gestire ambienti normalmente destinati ad altro, specialmente con grandi afflussi di pubblico. Particolare cura andrebbe poi riservata alle aree di attesa, che concentrano le emozioni “difficili” degli utenti, in particolare ansia e paura.
Che cosa vuol dire quartiere? Ho in mente che apri la porta a una signora che ricorda ancora il tuo babbo farmacista, dispensatore di consigli.
Mi entusiasma il fatto che molti pazienti prima si rivolgessero a mio padre e ora abbiano me come punto di riferimento: mi dà un’idea di continuità. Il Cit Turin ha uno dei pochi mercati quadrati della città (di solito sono disposti lungo una via), e la piazza centrale, sia con il mercato al mattino sia con le panchine e i chioschi al pomeriggio, è sempre popolata di persone che si conoscono, chiacchierano e interagiscono. La chiesa occupa un lato della piazza ed è molto attiva, specie con giovani e anziani. Ci sono molti locali di ristorazione, soprattutto ora che abbiamo nel quartiere il tribunale, la RAI, il grattacielo di Intesa Sanpaolo, la nuova stazione ferroviaria di Porta Susa ecc. (tutte realtà che non esistevano quando io ho aperto lo studio).
Mi racconti del radiatore e di tuo nonno, che correva e collaudava i motori con orecchio assoluto. Che rapporto c’è tra cura e tempo? Il tempo della cura: che cosa vuol dire per te e in generale per un medico di medicina generale oggi?
Hai notato che il tempo mi appassiona. Ho riempito lo studio con gli orologi più strani, tutti meccanici: un orologio da campanile, pendoli di ogni genere, una vecchia obliteratrice, orologi pubblicitari ecc. Non sappiamo quanto tempo abbiamo a disposizione; meglio non sprecarlo.
Come lavagna magnetica ho usato un vecchio radiatore di un’auto FIAT, chiaramente (a Torino è stata una realtà fondamentale dall’epoca di mio nonno fino alla mia giovinezza), e su di esso ho messo a disposizione dei pazienti pensieri che trovavo in libri, pubblicazioni, riviste ecc. Erano gli anni ‘90, prima dell’era dei social, e nel mio ambulatorio avevo solo quel radiatore come fonte di riflessione. Ho notato che le persone leggevano e commentavano quei pensieri, e allora, poco per volta, ho continuato ad aggiungere stimoli fino alla situazione attuale, in cui lo studio sembra il negozio di un rigattiere.
Nell’ambulatorio c’è il mio passato: ho anche cimeli di mio nonno materno, ex pilota di Formula Uno (ha vinto il primo Gran Premio d’Europa a Monza) e poi capo collaudatore alla FIAT.
Ho cercato di valorizzare il tempo che le persone trascorrono in sala d’attesa e, a questo riguardo, voglio condividere un’esperienza emozionante. Nel 2020 ho partecipato all’ultimo concerto di Ezio Bosso, scomparso pochi mesi dopo. Durante la sua lunga frequentazione degli ambienti sanitari, a causa della sua malattia degenerativa, ha condiviso con noi una riflessione sulle sale d’attesa: “L’attesa è un momento sospeso: attesa di una diagnosi, di una cura, di sentire il battito del bambino che ho nella pancia… con l’attesa si tende a qualcosa. L’autobus si aspetta.”
Che cosa ti commuove nella vita e nella professione? Quale pensi sia il senso delle Medical Humanities nella clinica del quotidiano in cui ci impegniamo? È una forma di impegno e di investimento nelle nuove generazioni di operatori, così impregnate di cultura della performance. Io la sento così. Ma forse serve anche a noi per manutenerci?
Noi facciamo una professione diversa dalle altre: veniamo in contatto con persone in momenti di vulnerabilità, e interagire senza una maschera è un privilegio che crea momenti di condivisione profonda. È questo che mi emoziona. La possibilità di conoscere gli altri membri della famiglia aiuta a contestualizzare meglio la situazione della persona che abbiamo davanti. Mi piace, infatti, la definizione di “medico di famiglia”. Favorire questo tipo di relazione, anche curando l’ambiente, è per me l’aspetto essenziale delle Medical Humanities. In questo si inserisce anche l’aspetto scientifico, che però è bene non sia unicamente tecnico. La medicina è una realtà sempre più sfaccettata, ed è chiaro che questo tipo di approccio non possa riguardare tutti gli aspetti di questo settore.